In questo sito si darà una definizione rigorosa di limite, ma poiché essa è piuttosto elaborata e non semplice da capire nel suo significato e nelle sue motivazioni darò qui conto delle difficoltà che si presentarono ai fondatori del calcolo infinitesimale e giustificherò il processo logico che è alla base di tale definizione.

 

La definizione di limite, che oggi viene posta alla base del calcolo infinitesimale, non è dovuta ai fondatori di tale calcolo- che sono in primo luogo Gottfried Wilhellm Leibniz (1646-1716), il matematico e filosofo tedesco tra i precursori della logica simbolica, e Isac Newton (1642-1727), lo scienziato inglese cui si deve la teoria della gravitazione universale e la formulazione delle leggi fondamentali delle meccanica classica.

Dopo di loro, il nuovo metodo di calcolo, non a caso chiamato “calcolo sublime” permise di risolvere molti problemi scientifici e matematici che fino ad allora non avevano trovato una adeguata descrizione e soluzione.

L’entusiasmo per la gran quantità di risultati che il calcolo infinitesimale permetteva di raggiungere era però attenuato dalla fragilità delle basi teoriche del calcolo stesso: i metodi di calcolo funzionavano, ma non si sapeva spiegare il perché.

Per chiarire questo aspetto, considero uno dei problemi più importanti da cui prese le mosse il calcolo infinitesimale: il problema della determinazione della velocità istantanea.

È noto che la velocità si definisce come rapporto tra due grandezze, lo spazio percorso ed il tempo impiegato a percorrerlo:

Come si definisce allora la velocità in un determinato istante? Sembra semplice rispondere utilizzando il linguaggio “intuitivo”: la velocità istantanea è il limite di quel rapporto “al tendere a zero” dell’intervallo di tempo considerato.

La velocità istantanea viene perciò definita come un rapporto tra quantità infinitesime o, per usare le parole di Newton, come l’”ultimo rapporto di quantità evanescenti”: “Si può obiettare - egli scrive -che l’ultimo rapporto di due quantità evanescenti non è nulla, perché prima che esse svaniscano il loro rapporto non è l’ultimo, e allorché sono svanite non ne hanno più alcuno.Ma è facile rispondere: [..] l’ultimo rapporto delle quantità evanescenti deve essere inteso come il rapporto fra dette quantità non prima che siano svanite, e nemmeno dopo, ma nell’istante stesso in cui svaniscono”.

Tale spiegazione mostra una evidente difficoltà, nel tentativo di fissare “l’attimo fuggente” in cui le “quantità” svaniscono. Infatti, sembrerebbero possibili solo tre situazioni, tutte e tre insoddisfacenti:

·        s/t è un rapporto tra quantità finite (ed allora non si potrebbe parlare di velocità in un determinato istante, ma di velocità media - sia pure in un intervallo di tempo molto piccolo);

·        s e t sono oramai uguali a zero (ma allora non si può neppure parlare di rapporto, essendo il denominatore t uguale a zero);

·        se si ammette che c’è un istante in cui le due quantità svaniscono, allora occorre ammettere l’esistenza di una quantità “infinitesima”, “atomica”, di cui non se può trovare una più piccola: ma ciò significherebbe ammettere una quantità “ultima”, misura di tutte le cose – ipotesi in contrasto con l’esistenza di grandezze incommensurabili, già nota fin dai Greci.

 

Nonostante queste difficoltà teoriche, il calcolo infinitesimale – vista la potenza dei suoi risultati – continuò ad essere utilizzato.

Tuttavia s’accrebbe, nel corso del Settecento, l’imbarazzo dovuto alla difficoltà di spiegarne i concetti di base.

Il filosofo e polemista francese Voltaire( pseudomino di François-Marie Arouet (1694-1778)) definì il calcolo infinitesimale “l’arte di numerare e misurare con esattezza qualcosa la cui esistenza non può nemmeno essere concepita.”

E grande risonanza ebbe l’opera pubblicata da Gorge Berkeley, vescovo di Cloney (1685-1753), così intitolata:

L’analista, ovvero discorso indirizzato a un matematico infedele nel quale si esamina se l’oggetto,i principi e le inferenze della moderna analisi siano più distintamente concepiti o evidentemente dedotti che non i misteri della religione o gli oggetti della fede.

Berkeley chiarisce la situazione che si era venuta creando: il calcolo infinitesimale produce ottimi risultati e quindi è “vero”, ma le sue basi sono inconsistenti e contraddittorie;l’analisi non ha basi teoriche razionali.Obiettivo della sua polemica è la presunzione razionalistica  dei matematici e degli scienziati : egli rivolge una critica ferrea alle “quantità evanescenti” e al modo disinvolto con cui i matematici manipolavano gli infinitesimi (facendoli sparire e comparire come più conviene); alla base del calcolo non c’è una spiegazione razionale, ma un atto di fede e, in questo, la posizione dei matematici è del tutto analoga a quella di un credente per il quale la fede nel Vero è, consapevolmente, un mistero.

Le critiche di Berkley (secondo il quale, peraltro, i matematici dovevano accettare tale situazione di “mistero della verità”) accentuarono il disagio e il problema rimase aperto per molto tempo.

Fu solo nel 1821, con la pubblicazione del Cours d’analyse pour L’Ecole polytechnique  da parte di Augustin-Louis Cauchy (1789-1857) che il calcolo infinitesimale trovò la sua sistemazione rigorosa, poggiandosi sulla definizione di limite di una funzione, che né Newton né Leibniz avevano individuato come il concetto dal quale derivare tutti gli altri.

La definizione che Cauchy dà del limite di una funzione mantiene una terminologia ed una simbologia che “richiamano” concetti “di movimento” (“limite”, “tendere a”,”®”), ma essi sono definiti attraverso concetti e termini già utilizzati dalla matematica e che richiedono soltanto una variabilità logica ( “per ogni”,”esiste”).